Psicologia del fallimento: come affrontarlo, cosa imparare, perché non temerlo

Negli ultimi mesi, Jannik Sinner è diventato un punto di riferimento per tantə: non solo per i suoi straordinari risultati, ma anche per l’atteggiamento umile e determinato con cui affronta ogni sfida. Eppure, anche per lui sono arrivate le sconfitte. A volte inattese, a volte dolorose. E, come accade sempre nello sport, sono state seguite da critiche, analisi tecniche, interrogativi sul futuro.

Ma cosa succede dentro a chi perde? Cosa accade quando, nonostante l’impegno e la dedizione, il risultato non arriva? E cosa possiamo imparare noi, che magari non calchiamo i campi di Wimbledon, ma viviamo quotidianamente confronti, attese, fallimenti più o meno visibili?

Questa riflessione, condivisa di recente, sembra oggi più che mai attuale, ora che anche uno degli atleti più amati d’Italia ci ricorda che la sconfitta è parte del gioco. E della vita.

Dalla parte dellə perdente

Vincere è bellissimo. È ciò che ci viene mostrato di continuo: sorrisi sui podi, coppe che brillano, braccia alzate in segno di trionfo. Le copertine raccontano le storie di chi ce l’ha fatta.

Ma ogni vittoria, per quanto grande, è solo una parte della storia. Per ogni vincitorə, ci sono almeno uno, dieci, cento, mille sconfittə. E questo vale nello sport, ma anche — e forse ancor di più — nei contesti scolastici, accademici, professionali.

Proseguo con la metafora sportiva, ma quanto sto per condividere vale per tuttə, ovunque ci sia un confronto, una valutazione, un obiettivo da raggiungere.

Quello che raramente vediamo è il volto di chi ha perso. Eppure c’è. Sempre.

E non solo: quel vincitore o quella vincitrice, prima di arrivare al traguardo, ha sicuramente conosciuto molte cadute, delusioni, battute d’arresto. Chiunque partecipi a una gara, piccola o grande, sa cosa significa faticare, rinunciare, sperare e fallire.

Mentre riflettevo su questi temi mi sono venute in mente due letture recenti, rubate a mio figlio e a lui suggerite dal suo prof. di italiano, che ringrazio per questo!

Klara e la società della performance a ogni costo

Il primo libro è Klara e il Sole, di Kazuo Ishiguro. È un romanzo futuristico che parla di un presente fin troppo vicino. In una società dominata dalla performance, i genitori sono pronti a sacrificare la felicità, il benessere emotivo e finanche la salute fisica dei propri figli pur di garantir loro un successo scolastico o accademico.
Ishiguro ci mette davanti a una domanda scomoda: cosa siamo dispostə a perdere pur di "arrivare"? E cosa perde lə ragazzə che, nel nome di un’ideale di eccellenza, viene spinto a superare se stessə?

In una società che esalta la performance, il successo e la perfezione, non c’è spazio per la fatica, l’errore, la fragilità. Il dolore va nascosto, l’impotenza cancellata. Ma è proprio questa rincorsa all’eccellenza — illusoria e vuota — che ci allontana dall’umano. Scegliere di fermarsi, di dare valore anche alla sconfitta e alla fragilità, non è arrendersi: è un atto di resistenza e di autenticità.

La vulnerabilità di Ettore, il vero eroe dell'Illiade

Il secondo libro è il saggio Le lacrime degli eroi di Matteo Nucci, di cui molti mi avete già sentito parlare. Qui l’autore ci accompagna in un viaggio nel mito, attraverso la lettura dell’Iliade e dell'Odissea, guidato, tra lə altrə, dalle riflessioni di due intellettuali ebree dei primi del Novecento: Simone Weil e Rachel Bespaloff. Entrambe vedono nell’Iliade un poema della guerra e della sofferenza, ma divergono nell’individuare chi ne sia l’eroe centrale.
Per Simone Weil, l’eroe è Achille con la sua forza. Per Rachel Bespaloff, invece, lo è Ettore, portatore di una resistenza che va oltre la forza fisica:

«La sofferenza e la perdita hanno lasciato Ettore nudo; egli non ha nulla se non se stesso.»
(Bespaloff R., cit. in Nucci M.)

Nucci approfondisce la tensione tra questi due sguardi e offre un passaggio che vale la pena riportare, con un taglio che mostra la forza crescente della riflessione:

«Quel che Omero esalta, santifica, non è il trionfo della forza vittoriosa, ma l’energia umana nella sventura. [...]
A quella vita che divora, la guerra restituisce un’importanza suprema. Poiché ci toglie ogni cosa, diventa inestimabile il Tutto, la cui presenza, d’improvviso, ci viene imposta dalla tragica vulnerabilità delle esistenze particolari.»
(Bespaloff R., cit. in Nucci M.)

È proprio quando perdiamo tutto ciò che ci circonda che possiamo ritrovare il senso più profondo di ciò che ci abita: la nostra vita, la nostra capacità di sentire, di piangere, di rialzarci.

Anche nella psicoterapia, e in particolare in un lavoro psicologico profondo, affrontare le esperienze di fallimento significa incontrare la propria vulnerabilità. E, talvolta, riscoprire una forza nuova, autentica.

Imparare dalla sconfitta

Siamo educatə a temere la sconfitta, a evitarla, a far finta che non sia mai successa. Ma è proprio lì che spesso accadono le cose più importanti

Le esperienze di fallimento, se affrontate con consapevolezza, possono insegnarci molto:

  • Per ottenere un risultato serve fatica, determinazione e continuità. Come abbiamo condiviso di recente: La costanza è il segreto per realizzare i nostri obiettivi.
  • Il successo non dipende mai da un solo fattore: ci sono innumerevoli variabili, alcune fuori dal nostro controllo.
  • Ogni fallimento può essere una lezione preziosa, se ci disponiamo ad ascoltarlo; come si è soliti dire "Nella vita o si vince, o si impara!".
  • La vita non è una gara continua, ma un percorso da vivere, in tutte le sue fasi: imparare a sostare, a rallentare, a perdersi, è altrettanto importante che arrivare primi.
  • Il (senso di) fallimento spesso è una sensazione, un vissuto soggettivo di inadeguatezza che deriva dal confronto con gli altri o con aspettative esterne, più che da un'esperienza oggettiva.

Rispetto per il proprio talento

Un’altra riflessione ci porta dagli eroi omerici a un volto attuale di tutt’altra natura: Francesco Cicchella. Lo cito qui per una frase che ho colto in una sua intervista alla radio.

La frase suonava più o meno così:

Ho faticato tanto perché ho grande rispetto per il mio talento.

Che si vinca o si perda, il nostro impegno non dovrebbe mai venir meno.

Non per dimostrare qualcosa, ma per rispetto verso ciò che ci è stato donato, e che spesso non abbiamo scelto: il nostro talento, le nostre passioni, il nostro potenziale.

La forza di fermarsi

Quando affronto questi argomenti, mi torna in mente un episodio che ha per protagonista Simone Biles, una delle ginnaste più forti di sempre, che durante le Olimpiadi di Tokyo 2020 ha scelto di fermarsi, ritirandosi dalla competizione.

Una scelta tutt’altro che semplice, motivata da problemi di salute mentale: in particolare dai twisties, un fenomeno psicologico che altera la percezione dello spazio durante gli esercizi con rotazioni o avvitamenti, rendendo pericolose le routine ginniche.

Ma Biles non si è ritirata per sempre. Ha poi annunciato il suo ritorno alle Olimpiadi di Parigi 2024, dove è tornata a gareggiare e ha vinto medaglie.

La sua decisione ci ricorda che la vera forza non è solo andare avanti, ma anche sapersi ascoltare, fermarsi quando serve, e tornare quando si è prontə.

Continua a batterti per la vittoria e impara dalle sconfitte

Essere "dalla parte del perdente" non significa essere inferiori.

Significa guardare alla realtà con più profondità.
Significa riconoscere la nostra vulnerabilità, non nasconderla.
Significa permetterci di sentire, anche quando fa male.

Perché, come scrive Nucci:

«Quando non abbiamo più nulla fuori di noi, abbiamo ancora qualcosa in noi: la nostra vita che scorre nelle lacrime».

Nel lavoro psicologico e nei percorsi di psicoterapia, la sconfitta non è vista come un fallimento da correggere, ma come un’esperienza da comprendere, attraversare, integrare.

Il (senso di) fallimento nella terapia di gruppo è spesso oggetto di confronto. Vedere la fatica dellə altrə, riconoscersi in storie diverse ma simili, condividere le proprie vulnerabilità: tutto questo aiuta a ridare senso a esperienze che, se vissute da solə, sembrano troppo grandi da portare.

È in queste connessioni che si ricostruisce il senso del "Tutto", come direbbe Bespaloff.

Non quello perfetto e immacolato del successo esteriore, ma quello autentico, fatto di umanità, lacrime e consapevolezza.

Ti lascio una canzone: "Volevo essere un duro"

Per accompagnare queste riflessioni, ti lascio una canzone. È "Volevo essere un duro" di Lucio Corsi.
Un brano che, con dolcezza e ironia, racconta la forza di chi smette di fingere, e sceglie di restare vero.
In un mondo che ci vuole invincibili, Lucio Corsi ci ricorda che anche la fragilità può essere un atto di coraggio.

Volevo essere un duro
Però non sono nessuno
Cintura bianca di judo
Invece che una stella, uno starnuto
I girasoli con gli occhiali mi hanno detto
"Stai attento alla luce"
E che le lune senza buche
Sono fregature
Perché in fondo è inutile fuggire
Dalle tue paure

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